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Avvocato senza condizionamenti "Una sola è la verità"

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Il decentramento amministrativo non ha favorito la cultura della legalità

Aggiornamento: 7 giu 2018

di Gerardo Spira


Dal 1948, da quando è nata la Repubblica, la vita politica italiana è stata diretta e gestita dalle organizzazioni dei partiti e dei movimenti. Intorno alle ideologie si sono sviluppati gli interessi divergenti o più o meno convergenti delle aggregazioni di persone e di lavoratori. I partiti storici, quelli che abbiamo conosciuti, posizionati da sinistra a destra, hanno occupato e mantenuto la scena fino agli anni 90, fino a quando la valanga giudiziaria e riuscita a scoperchiare la pentola del sottobosco politico proliferato sugli accordi, patti e contatti che hanno stritolato la cultura istituzionale.

La caduta del muro di Berlino ha portato ad un ripensamento dell’idea politica della sinistra. La Democrazia Cristiana si è sciolta e trasformata in diversi raggruppamenti, la destra ha mantenuto la bandiera tra i venti che soffiavano in diverse direzioni. Intanto spuntavano nel frammentario panorama nuovi movimenti che prestavano ascolto e davano sfogo alle voci più insistenti dei cittadini.

Nelle Regioni, province e Comuni si è sviluppata una cultura frantumata di raggruppamenti uniti su programmi stesi più intorno agli interessi di cordata che sulle esigenze reali.

Le leggi sulle autonomie locali sono state adattate ai momenti storici, tra le difficoltà operative della volontà politica prevalente o quella concordata. I principi costituzionali sono stati comunque un argine ai tentativi di spostare l’ago della bilancia da una sola parte. Quando è accaduto le contraddizioni si sono infrante sul muro del peso e contrappeso. Il cittadino ha comunque tenuta distinta la visione politica nazionale da quella locale. Perché le ragioni e gli interessi, molto più circoscritti, lo tengono legato ai bisogni più immediati ed in una realtà in cui si vive e si opera giorno per giorno. Le discussioni accanite e rumorose dei consigli comunali evidenziano la situazione in cui si muove la vita amministrativa locale.

Le regole della democrazia e i principi costituzionali si frantumano su banchi delle decisioni, senza alcuna possibilità di appello e con la solita forza del voto della maggioranza che si è accordata su di una buona o cattiva decisione. Un raggruppamento di poche persone, in nome della vittoria elettorale, rivendica il diritto di imporre la sua decisione senza tener conto della voce della minoranza. In questo momento saltano le regole della democrazia, anche a discapito della corretta amministrazione, talvolta forzando anche il principio delle formalità legali. Quando Il diritto della maggioranza passa comprimendo quello della minoranza, è messa in discussione la legge.

La legge innanzitutto! Quando s’impedisce ad una minoranza di accedere agli atti della vita pubblica, di partecipare e di esprimere la propria posizione, si blocca il processo democratico delle istituzioni, si favoriscono le divisioni sociali e si cade nell’antica concezione di latina memoria, del divide ed impera.

Il legislatore ha pensato di mantenere principi e orientamenti uniti in una sola direzione, quella della crescita democratica della comunità. Il mancato raggiungimento dello scopo è stato causato dalla particolare cultura politica locale che si trascina ancora residui di lotte familiari, di caste e di interessi di gruppi. Sì, perché nei piccoli comuni gli interessi vengono esasperati fino a distruggere rapporti e valori.

Si trascura invece il progetto della comunità in cui operano tutti cittadini. Siamo nell’epoca dei movimenti delle idee, dei popoli, delle trasformazioni sociali, delle crisi. Mentre il nuovo avanza, le istituzioni restano ancorate a vecchi e superati metodi di amministrare e gestire la cosa pubblica. La poltrona pubblica è diventato l’obiettivo per realizzare interessi personali, di famiglia e di gruppi. Accordi e convenzioni spregiudicate hanno fatto avanzare idee già mappate sul territorio, indirizzate a consolidare gli interessi diversificati, occupando spazi nevralgici di manovre finanziarie ed economiche. Queste saldature si presentano sempre più forti nelle competizioni elettorali. In queste si rinvengono le ragioni delle scelte cosiddette politiche. Le maggiori aggregazioni quasi sempre incontrano il consenso elettorale, specialmente se il personaggio di turno “appare di più” per esposizione e stabilità rappresentativa, tirato a lucido, circondato da altri soggetti che contano e operano sul territorio nel mondo del lavoro e dei servizi. I bisogni dei cittadini, purtroppo affondano in questi aspetti. E la dignità fa un passo indietro di fronte alle necessità, perché il cittadino è rimasto solo, senza alcuna garanzia istituzionale.

La rivoluzione amministrativa, dal 1990, non ha aiutato la democrazia. E le istituzioni, quelle della vigilanza e del controllo, in mano alla burocrazia, non sono intervenute per tutelare i processi di legalità.

Nel 1990 sono state approvate due leggi, la 142 e 241, che hanno riformato l’ordinamento giuridico degli Enti territoriali e cancellata la cultura del criterio “discrezionale” che permetteva alle maggioranze di amministrare e gestire la vita pubblica, secondo la convenienza del momento. Con la legge 241/90 questa cultura è stata seppellita. Dal 90 gli atti della P.A per essere legittimi devono trovare aggancio nelle norme di legge o disposizioni aventi lo stesso valore. Il procedimento amministrativo disciplinato nella legge 241 è divenuto il cuore e l’anima dell’azione della P.A. Il legislatore ha invertito la rotta della gestione amministrativa disponendo che l’amministratore nei programmi e nelle decisioni deve seguire un percorso logico giuridico che garantisca il principio fissato nell’art. 97 della Costituzione (buon andamento ed imparzialità). L’indirizzo legislativo torna dunque sulle note di garanzia pubblica e sulla responsabilità di amministrare in modo corretto nel rispetto delle regole pubbliche.

Ho sempre sostenuto che la violazione del principio costituzionale comporta responsabilità allargate a tutti i livelli istituzionali tenuti a vigilare sulle attività della P.A, (amministrative, civili, penali, contabili, tributarie) specialmente in questo particolare momento di aggressione e di infiltrazione nei settori più appetibili della vita pubblica.

Il problema comunque è collegato alla politica e alle decisioni. La macchina politica è stata sempre considerata lo strumento per coordinare le azioni verso determinati scopi. Qui purtroppo non è passata la cultura della legalità, rivolta a tutelare interesse generali di tutti i cittadini, specialmente di quelli contrari” politicamente”. La politica del favore ha continuato a condizionare strumenti e personale, strozzando il processo democratico nelle discussioni di problemi che riguardano tutti i cittadini.

Cosa c’entrano le minoranze nel tema affrontato? C’entrano e come!

La legge di riforma n.142/90, confluita nel TUEL del 2000 ha cominciato ad aprire il cuore degli enti locali verso un nuovo mondo in cui i campanili venivano superati e le comunità allungavano lo sguardo oltre i limiti territoriali in una visione allargata dei rapporti e dei servizi, per i costi che incidevano pesantemente sui bilanci familiari.

Il nuovo amministratore ha dovuto necessariamente rivedere il suo ruolo e qualificare la sua funzione in relazione delle esigenze sempre più richieste e apprezzate dalla società. Il nuovo panorama politico-amministrativo ha inquadrato uno scenario diverso da quello precedente, individuando e posizionando le figure istituzionali in compiti e ruoli di responsabilità ben delineati. Il legislatore ha pensato quindi all’Ente locale come un azienda in cui le figure professionali stanno in settori e spazi di competenza, al fine di dare al cittadino il punto di riferimento immediato per avere la risposta giusta al suo problema.

La legge ha così distinto competenze e funzioni per chi fa politica e per chi gestisce ed esegue: il ruolo del politico distinto da quello della dirigenza. Alla politica viene riservato il compito di programmare e di fissare gli indirizzi, alla burocrazia di gestire la fase programmatica e le direttive, operando non più secondo criteri discrezionali, ma secondo un percorso, definito “procedimento amministrativo”. Per la prima volta il legislatore definisce il consigliere comunale amministratore, dunque titolare del ruolo e della funzione a cui è chiamato con mandato pubblico.

La politica purtroppo ha posto poca attenzione alle competenze dei consiglieri locali, nonostante il loro ruolo sia uno dei più complessi e complicati. Invece Il ruolo del consigliere comunale si è evoluto nel tempo secondo i cambiamenti delle leggi e della politica. Le esigenze hanno fatto avvertire la necessità di creare una scuola di preparazione e di aggiornamento per incanalare la cultura specifica della funzione nel quadro ordinamentale delle leggi della pubblica amministrazione.

L'obiettivo è quello di diffondere e consolidare la figura reale del politico locale. Infatti il consigliere comunale lavora a stretto contatto con i cittadini e le comunità. E’ considerato il punto di riferimento della zona o del quartiere in cui opera e il suo lavoro si muove nel piano generale in cui sono segnate le linee di sviluppo dei piani.

Il ruolo chiave della sua funzione del Consigliere comunale è quello di raccogliere le esigenze della gente e riportarle nel programma amministrativo.

Con la legge 241/90 il legislatore ha stabilito un altro importante corollario: le attività della P.A devono rispettare il principio di trasparenza, pubblicità, efficienza ed economicità. Che inoltre ogni attività deve seguire il percorso logico giuridico, e che gli atti devono essere accessibili al cittadino, fatta esclusione per quelli rigorosamente sottoposti a riserva di legge.

Bene, con questa legge è stata dichiarata la morte del “criterio discrezionale”, croce e delizia del vecchio metodo amministrativo ed è stata collocata nell’alveo della legittimità ogni azione dell’amministrazione. Il procedimento amministrativo diviene così il cuore e l’anima della vita della P.A. Delibere, determine e provvedimenti amministrativi devono seguire un percorso “logico giuridico” che esclude il pensiero personale del proponente, che invece deve esprimersi con i riferimenti e i richiami normativi, per garantire legittimità e conformità al principio costituzionale di cui all’art. 97. Al rispetto del principio della norma costituzionale sono obbligati tutti, istituzioni ed Organi dello Stato, dirigenti, responsabili di settori, giudici e magistrati.

Riteniamo la legge 241/90 determinante e fondamentale nel rapporto col cittadino, in quanto la vita pubblica si sviluppa in un percorso di atti di responsabilità e di controllo. La minoranza, nei processi di sviluppo democratico va considerata il termometro di valore e crescita di livello civile della comunità. La voce dissonante, in qualsiasi consesso, risulta il sale e lo strumento di controllo delle scelte politiche. La compressione della voce della minoranza mette in discussione la legittimità della forma e del merito dell’attività amministrativa.

L’assenza o la carenza dei controlli pubblici incidono sulle finalità dell’equilibrio delle attività della P.A. Il dibattitto serrato su questo argomento ha evidenziato la criticità in cui si muove la vita amministrativa, specialmente laddove è assente la rappresentanza della minoranza. Dove questa esiste le discussioni, quasi sempre cadono sull’argomento chiave di esigenza della partecipazione, della trasparenza, pubblicità e controllo. Il rilievo sollevato, in sede di discussione, sui principi dalla legge solleva inevitabilmente il problema sulla precarietà degli atti adottati per finalità pubbliche. E ove mai se ne evidenziasse la carenza l’atto, a garanzia del principio di legittimità, dovrebbe essere immediatamente ritirato o se adottato revocato per essere riproposto secondo il corretto procedimento. L’ atto amministrativo deve essere certo e corretto, requisiti insiti nella legge. Invece accade che la maggioranza, per non mostrar debolezza di tenuta, talvolta riconferma la decisione anche sul limite della legittimità, esponendo l’atto a dubbi di tenuta. Il legislatore non ha pensato di risolvere questa contraddizione, mettendo a disposizione del consigliere comunale di minoranza gli strumenti gratuiti a garanzia della sua funzione pubblica.

Mentre la maggioranza ha a disposizione strumenti, risorse e struttura per amministrare, la minoranza resta relegata in una posizione, formalmente di opposizione, di fatto non garantita ad esercitare la funzione di controllo durante il suo mandato. Infatti il consigliere comunale di minoranza per affrontare la giustizia amministrativa deve farlo con risorse personali, mentre l’amministrazione in carica può attingere alle casse pubbliche. Il principio va equilibrato, sia perché le funzioni ed il ruolo sono identici, ma anche al fine della garanzia del controllo.

Il principio del buon andamento e dell’imparzialità ( art. 97 Cost.) è corollario che va tenuto sempre presente nella vita pubblica.

Sulla prossima pagina: i controlli come garanzia di evoluzione democratica degli enti locali.


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